giovedì 22 dicembre 2016

HOW MUCH CAN I TAKE? - Dare e ricevere

“There's a goddess in the doorway - C’è una dea sulla soglia
Asking how much can I take - che mi chiede quanto sono capace di prendere
And it looks like she's heading my way - Sembra che stia guidando la mia strada
There's a goddess in the doorway - c’è una dea sulla soglia”  (Mick Jagger)


Negli ultimi giorni mi sono accaduti una serie di piccoli ma importanti episodi che, ancora una volta, mi hanno fatto riflettere su come si possa realmente imparare qualcosa da chiunque incrociamo sul nostro cammino, si tratti anche solo dell’incontro di un attimo. 
Persone che, erroneamente e arrogantemente, ritenevo poco capaci di provare, figuriamoci di esprimere, sentimenti di gratitudine, affetto o dolcezza mi sono state ‘maestre’ a tutti gli effetti nel dimostrare concretamente di tali qualità. Alla luce di questo, mi è tornato in mente uno dei tormentoni tipici dell’esperienza relazionale umana, ossia l’intramontabile “perché do sempre così tanto e ricevo sempre così poco?” 


I recenti episodi di cui scrivevo sopra hanno un po’ ribaltato la prospettiva con cui generalmente tendiamo a valutare le nostre relazioni, specialmente quelle più strette o intime. Mi chiedo infatti adesso quanto siamo noi realmente capaci di ricevere: di avere occhi per vedere, orecchie per udire e braccia per accogliere ciò che l’altro ci sta dando o indicando mentre noi siamo tutti indaffarati a tentare di ‘educarlo’, ‘correggerlo’, ‘migliorarlo’.
Quanto siamo aperti alla bellezza dell’altro?  Quanto siamo in grado di percepire, non voglio nemmeno dire di apprezzare, quelle qualità che lui (o lei) ha sviluppato e che, sia mai,  potrebbero essere utili anche a noi? Siamo, in genere, molto bravi a elargire consigli, fare diagnosi e a imbastire interventi correttivi - specialmente sul prossimo - trascurando però lo stesso messaggio educativo che il prossimo, già con la sua semplice presenza e modo di essere, ci sta offrendo. 


Forse è il caso di provare ad aprire un maggior spazio di ascolto, apprezzamento e incoraggiamento nei confronti delle persone che ci circondano, siano esse genitori, figli, amici o partner. Un tale tentativo potrebbe sanare e  potenziare la maggior parte delle nostre relazioni o, se non altro, potrebbe favorire un nuovo modo di vedere noi stessi: con più simpatia, accettazione e, perché no, magari anche con più amore.


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martedì 13 dicembre 2016

SENTIAMO SEMPRE PIÙ SPESSO PARLARE DI CAMBIAMENTO - Una riflessione di Carlo Pagliai

Posto qui di seguito un articolo di Carlo Pagliai, con una riflessione volutamente un po' provocatoria sulle dinamiche del 'cambiamento' all'interno della coppia:


Sentiamo sempre più spesso parlare di Cambiamento, di Crescita personale e di cambiamenti interiori. 
Ognuno di noi cresce con propri archetipi ricevuti dall'ambiente circostante, in primis dai genitori. Crescendo attribuiamo a noi stessi un proprio archetipo, e lo stesso facciamo con il prossimo. Ad ogni persona e ai nostri partners assegniamo un vero e proprio "timbro mentale", in termini informatici apponiamo un "link" del tipo: "persona X, carattere e personalità Y".
Questo tipo di relazione, vincolo o link, come preferiamo chiamarlo, diventa talmente forte che ristrutturarlo può diventare una enorme fatica, in grado di assorbire energie mentali notevoli.
A volte chiediamo al partner stesso un cambiamento, anche con una certa pressione, sbagliando! 
Il rapporto col partner non va instaurato con "pressione", bensì con complicità. E cos'è la complicità ? La prima cosa che viene in mente è la coppia di persone che trasgredisce una regola, azione felicemente condivisa prima, durante e dopo il compimento. La complicità si manifesta senza pensarci tanto, senza sensi di colpa e con l'eccitazione che scorre nelle vene nel fare proprio questa cosa assieme. A volte si manifesta con un semplice sguardo, come se fosse magia o telepatia.
In mancanza di complicità col partner, una possibile alternativa diventa la rassegnazione lassista da una parte, e accetti di vivere il rapporto con la stessa rassegnazione che ti hanno inculcato le tue figure significative, accettando quindi il loro modello di un rapporto con l'altro sesso basato su compromessi e pigra accettazione".
L'altra alternativa può essere il "pressing". Ti rendi conto di non voler più accettare l'attuale relazione stagnante col partner, diventi consapevole e desideroso di cambiamenti verso il partner perché nel frattempo tu sei cambiato. Ed è così che inizi a fare pressing, chiedendo modifiche, manifestando i tuoi desiderata in diversi modalità. Conversazioni, mail, immagini, sms, whatsapp, messaggi segreti: tutto inutile. Neppure triangolando attraverso la persona amica più prossima al partner, le tue comunicazioni arrivano al ricevente, e ricevi zero feedback. Se tutto va bene, la risposta è un assordante silenzio. Se tutto va male, il partner ti risponde con un laconico languoroso "o mi accetti o cambia partner".
In quel preciso istante, nel grande gioco dell'oca chiamato "vita", torni indietro di qualche casella indicata dal partner, imponendoti anche l'accettazione del suo archetipo. Il tuo tentativo di pressing non solo va a vuoto, ma si ritorce un contropressing: ha vinto la pressione uguale e contraria del partner, mentre la tua è dissipata.
Quindi, come una molla tesa, la tua aspettativa di cambiamento del partner torna allo stato di quiete, con tutta la resilienza possibile. E il tuo stato d'animo ? Anch'esso torna indietro di qualche casella.
Esiste sempre una terza via. Poniamo una domanda provocatoria: nel momento in cui il partner si "pieghi" alla pressione dei "desiderata", la tua mente che ha associato un certo archetipo per esso, è in grado di dissociare, formattare e riassegnare un nuovo archetipo?
Mi spiego meglio in maniera più provocatoria: il tuo partner per quindici anni rifiuta di condividere e vivere con complicità; se per qualche ragione compiesse quel tanto atteso cambiamento, tu saresti pronto per relazionarti in presenza del cambiamento ?
Essere in grado di rapportarsi con una persona che ha fatto cambiamenti, e che alla tua percezione appare totalmente difforme all'archetipo che hai di esso, non è proprio semplice. 
La domanda da porsi è se siamo pronti a vivere con lo stesso contenitore "partner" ma con un contenuto diverso, resettato e formattato proprio come un sistema operativo di un computer.
Mi viene in mente il più classico dei classici episodi da  cartone animato in cui si scambiano i cervelli tra due personaggi. Ognuno di noi a quel personaggio attribuisce un significato, un comportamento, un modello comportamentale. In ingegneria il termine "modello" presuppone la prevedibilità di un comportamento, come un insieme di stringhe "if else", cioè una serie di azioni che avvengono sotto condizioni. Se avviene questo, allora avviene quest'altro. Un banale modello previsionale. 
Anche la nostra mente è abile ad attribuire uno specifico modello previsionale per ogni persona. 
Come un gigantesco software, la nostra mente assegna una serie di "if else" ad ogni persona, e soprattutto al partner, la persona con cui siamo destinati a trascorrere la maggior parte del tempo. L'archetipo che assegniamo al partner contiene appunto tutti questi "se allora" sedimentati nel corso del tempo, proprio come fa la sabbia sul fondale marino.
Nel momento in cui il nostro software mentale ha stratificato un notevole archetipo del partner, siamo in grado di ristrutturarlo ?
Se da una parte ci brucia la frustrazione del suo mancato cambiamento, dall'altra sei sicuro che non possa intimorirti il suo cambiamento stesso ?
Vivi da anni con un partner "pecora": se nel giro di poco tempo diventasse "leone", la tua mente sarebbe in grado di operare la stessa sostituzione che ha fatto il partner ?
In questo caso gioca non solo la sostanza, ma anche la variabile "velocità": la tua velocità di cambiamento mentale sull'archetipo previgente è minore, uguale o maggiore della velocità di cambiamento del partner?
Si ritorna un po’ alla definizione iniziale. Se la tua velocità mentale è uguale o maggiore del partner, si rientra nell'ambito della complicità.
Se fosse inferiore, ahimè, il problema non è più il non-cambiamento del partner, ma il tuo cambiamento rispetto a quello del partner.
Anni e anni passati nell'attesa di una mutazione dell'altro, formati da paure miste a frustrazione, potrebbero cambiare punto di destinazione, passando dal partner a te stesso.
Quindi, prima di pretendere il cambiamento dal prossimo, bisogna verificare di essere in grado di accertarne l'effettivo manifestarsi, oppure l'aspettativa dei tuoi accorati desiderata rischia di ritorcersi contro. Amplificatamente, aggiungerei.
Carlo Pagliai.


giovedì 24 novembre 2016

TRASCENDERE E/O RISOLVERE

“Devo far cambiare il campanello: suona sempre quando sono in bagno.” (Anonimo)



Come dice il maestro Mooji, “si fa prima a illuminarsi che a risolvere tutti i nostri problemi”. Questo per dire che è più risolutivo modificare la nostra posizione mentale che tentare (spesso inutilmente) di cambiare le situazioni, le cose o le persone che ci circondano. 
Ciò, sia chiaro, non deve diventare un giustificativo per non prendere responsabilità verso la nostra vita. Tuttavia, l’atto e la volontà di trascendere il problema ci aiuta a porre un certo spazio tra noi ed esso senza farcene ossessionare mentalmente o devastare emotivamente - reazioni effettivamente poco consigliabili e poco efficaci.
Per quello che mi riguarda, sono rimasta disillusa dall’odierna mentalità new-age salutista/evoluzionista tanto quanto dalla vecchia visione materialista/interventista. Apparentemente agli antipodi, in realtà entrambe convengono su questo assunto di base: ‘se e solo se risolvi (correggi, migliori) questo e quest’altro di te e del mondo, allora avrai il permesso e il diritto di esser felice (risvegliato, illuminato, in pace).’


Il punto è che, non so se qualcuno ha notato, appena ci sembra di aver risolto un problema, sia esso di natura fisica, sentimentale o psico-spirituale, ecco che ne spunta  subito fuori un altro a richiamare con urgenza la nostra attenzione. Se poi, per qualche strano caso, ci sentissimo invece abbastanza ‘a posto’ e risolti, sicuramente comparirà nostra madre, nostro marito o il nostro miglior amico a puntare il dito su un altro dei nostri errori, misfatti o difetti. 
Andiamo avanti una vita, tutti presi e indaffarati a risolvere un problema dietro l’altro, rimandando e mettendo infinite condizioni alla felicità, alla pace,  alla realizzazione. Questo accade perché la personalità umana stessa, a meno che non sia allineata con qualche principio superiore, è costruita appositamente per ‘cercare e non trovare’, per ‘essere felice solo se…’ e quindi per creare e vedere problemi sempre e ovunque.


Prendiamo un esempio terra-terra: il nostro corpo fisico. Per quanti vaccini gli facciamo, per quante bacche di goji gli propiniamo, per quanto yoga o meditazione gli somministriamo, alla fine è destinato a non farcela. Quindi non so quanto sia funzionale pensare ‘finché non guarisco il mio diverticolo intestinale o, psicosomaticamente parlando, finché non guarisco il rapporto con mia madre, non potrò essere felice, realizzato, in pace.’ E’ un autoinganno della mente tanto quanto il pensiero ‘Finché i miei figli non hanno trovato un lavoro e si sono sistemati, io non posso essere felice/realizzato/in pace.’
Il maestro Mooji riduce drasticamente gli infiniti problemi dell’individuo e della collettività umana a uno solo: la personalità o l’ego - il generatore stesso dei problemi. Una delle sue citazioni più incisive infatti è  che “Non esistono problemi personali: la personalità è il problema”. E continua, con spietata lucidità “la personalità è sempre in uno stadio terminale…perché  sicuramente termina”.


Trascendere significa dunque compiere quel balzo quantico che sposta il nostro punto d’identificazione da ‘Sara Bini’ o ‘Mario Rossi’ a quel principio superiore, immutabile, indistruttibile e incontaminabile che è la nostra coscienza, la nostra anima o essenza interiore. Riconosciamo di essere in tale stato allorché non pensiamo all’ ‘io, me, mio’ e magari contempliamo qualcosa di bello; oppure quando condividiamo di cuore qualcosa con qualcun altro senza pensare ai nostri tornaconti. Inoltre contattiamo tale principio vitale ogni volta che osserviamo spassionatamente un problema invece di angosciarci e agire freneticamente per ‘sistemarlo’. 
Paradossalmente e quasi magicamente, è proprio dal cercare questo punto di osservazione libera, questo luogo al di sopra del conflitto che spesso procedono le azioni e i pensieri ispirati : quelli che si occupano efficacemente della questione in corso o la eliminano alla radice, riconoscendola come un falso-problema.


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martedì 4 ottobre 2016

Infective affinities 4 - Going wrong…is almost good!

“Good, now that this experience has given its results, not extraordinary, but largely sufficient to consider it over, I’ll change my scenery, in search of new adventures” (Sara Bini)



When Hilde had heard him talking about friendship, she had been innerly shaken by a big, deep laughter. She hadn’t even bothered to contradict him. Thanks to this smart-ass definition, by which he was attempting to sugarcoat his motives, he had mainly defined himself. For her Mark was not even to be regarded as an acquaintance, much less as a friend! If he had justified himself by saying “I had been clear from the beginning, I wanted to remain single”, she could have answered that she had been as clear as well: she didn’t want any friends with benefits. So, no friends as before - but no enemies either. The little they had felt about the little that had occurred could be easily forgiven as well as forgotten.


Hilde chuckled. The Universe was really a friendly place, after all. No matter how naive she could be and although she kept involving herself in filthies of all kinds, life moved on in such a benevolent way that she got quickly released without too much damage.
The sun had set down and the purple sky was turning into a clear, starry night. Boy, Hilde thought all of a sudden, there was another turnaround for the original statement. From her bed, Hilde grasped a pencil and a paper and wrote down: “I shouldn’t have had another man”. Honestly, also this one was pretty true. Hilde laughed heartily and fell asleep peacefully.  


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Infective affinities 3 - Of course he should have had another woman!!

“I thank all my partners because they all have taught me, one way or another, to do without them . They’ve been my teachers of Freedom” (Sara Bini)


“Mark should have had another woman”, three reasons why this statement - and this kind of reality - were better than the original one. 

  1. First, because now it was her (or their) turn to go through his photo exhibitions, through the boring trip along the river and his very embarrassed friends, who every month had to get acquainted with a new lady. 
  1. Secondly, because she, Hilde, was finally over with with his performance anxieties and obsessive needs of validation especially before, during and after the embrace. Unluckily for him, she was also particularly thick on this respect. When, after their first intercourse, he asked “How are you feeling now?” she candidly answered “Well, bit of a sore throat and I have an ingrown toenail. I could be better, thanks for asking.”
  2. Finally, because she was definitively spared from his lame clichés parade which he invariably sold to every damsel on shift. These commonplaces included pearls such as “I am a free spirit” “Women are never free spirits” “All women inevitably fall in love with me” “Anyway, I want to stay friends with you”. 

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Infective affinities 2 - General Tales of Extra-ordinary Madness

I love when a men sleeps with me and then tells anybody about it. I need as much promotion as possible. (Mae West)


She briefly recalled their romance - briefly, because it could not be otherwise. That was all what life had given her lately, consequently she had to work right on this: more glorious battles seemed to be indefinitely postponed.
Mark had begun with fifteen days of savage courtship: personally, virtually and whatsapply. In front of such an insistence and  persistence, even Mother Therese would have given up. Hilde, out of exasperation, had eventually given up. Now that the dust had settled, if she could have imagined that giving it up was sufficient to get rid of him, she would have done it sooner. 


Conversely, he had to work hard heroically for nearly two weeks, racking his brain in all the possible ways to gain some trust and credibility. A commendable work, he even had to go through a couple of her extremely tedious short stories, then he had taken her on a long boat trip, invited her to the opening of his own photo exhibition and finally he had introduced her to his best friends. Poor thing. She sighed full of sincere compassion. If she had only known that all his effort was just to get two nights of sex, she would have spared him the trouble. After all, Mark was not that young anymore and bruised-up fifties-man like him should try to avoid additional stress. 


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Infective affinities 1 - He/she shouldn’t have another one

To thoughts which are inimical to Yoga , contrary thoughts will be brought. (Patanjali)

 

“There are people and experiences that you can flush out in fifteen days, like the snails” After formulating such a profound and mighty thought, Hilde took her Worksheet and decided to complete Byron Katie’s exercise. A ray of evening light was filtering from the window: in Bippendorf, a nice suburb of Bon-Bon town, the sunset was showing its most beautiful colors. Hide imagined that such a blade of light, as a laser, could pierce in that instant her confused and exhausted mind as well.  


‘Find at least three specific, genuine examples of how each turnaround is as true as or truer than the original statement.’ This was the task of the exercise. Hilde concentrated. The original statement said “Mark shouldn’t have had another woman”. If grammar and logic were not just an opinion, the first turnaround would transform the sentence from a negative to positive one: “Mark should have had another woman”.
True. So it had been and it was still, de facto. He had at least a dozen women at the same time, or so it seemed. To be totally honest, Hilde remembered the feeling of relief and liberation when she had seen Mark with his new fling. She had also wondered why…after all she should have felt hurt, wounded, humiliated, or at the very least, cheated. But probably such feelings were even too noble in relation to their seedy background. 


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venerdì 16 settembre 2016

Rolling Northward - Rotolando verso Nord (quinta e ultima parte)

“Quando uno mi riempie di botte, io mi ci affeziono”(Dal film 'Bulldozer', con Bud Spencer)


Il giorno finale della vacanza si distingue per un buffet-colazione ad Haga, dove Micky scambia lo smoothie in dotazione per marmellata un po’ liquida e lo versa gloriosamente sul pane di segale cosparso di burro. La manovra è accolta da un applauso dei camerieri e degli altri avventori che racconteranno tale prodezza alle future generazioni nei secoli a venire.
Notevole anche l’operazione deposito-valige negli armadietti della stazione centrale. Micky e Keithy, dopo aver a fatica racimolato le 80 corone spicciole per il deposito, riescono a farsele fregare dall’insidiosissimo armadietto e si esibiscono in un coro a doppia voce costituito dai più classici improperi della lingua italiana e del dialetto toscano.


Giunge così anche la fine di questo clamoroso esodo nordico e le nostre due intrepide si avvicinano al bus-navetta per l’aeroporto. Poco convinte di lasciare le loro preziose valigie zeppe di kanelbullar nel bagagliaio del mezzo, ecco che un gentilissimo ed elegantissimo svedese le approccia chiedendo se ci sono problemi. Fa quindi da intermediario col conducente della navetta che, spazientito, scaglia senza troppi scrupoli i due borsoni nel ventre del bus e parte.
All’arrivo all’aeroporto, com’era prevedibile, le due non sono buone a recuperare il loro bagaglio dal bagagliaio. Ricompare il gentilissimo ed elegantissimo svedese: “Can I help you?”
“Yes, of course!” sbraita Micky imbestialita, indicando la valigia nei recessi del bagagliaio.


“Che razza di profittatrice!” pensa Keithy con ammirazione: è ormai assodato che la sua amica Micky esercita un certo ascendente sul popolo scandinavo. Vedendo poi il bel svedese tutto pulito annaspare nelle viscere dell’autobus, Keithy scoppia a ridere sgangheratamente.
A tale schiamazzo che perturba la leggendaria pace del Nord, arriva nuovamente l’autista esasperato e dice qualcosa in svedese che perfino Micky comprende “Si può aprire il bagagliaio dall’altro lato”. Reso vano il cavalleresco sacrificio del bel svedese, Micky apre l’altro portellone della vettura, recupera facilmente la valigia e sgattaiola via zitta zitta, seguita da una sghignazzante Keithy.


Ai controlli aeroportuali, le malefiche vengono ripetutamente fermate e costrette ad aprire il malloppo: in un tripudio di kanelbullar, mutande, magliette e piastre per capelli, vengono quasi multate per due bottigliette d’acqua e un sovraccarico di liquirizia salata degno del peggior contrabbando internazionale.
“Però, tutto sommato è stata una bella vacanza” bofonchia Keithy, sprofondandosi nel sedile dell’aereo, mentre Micky si sbafa impunemente tre pacchetti di biscotti.
La Svezia intanto tira un gran sospiro di sollievo: anche questa calamità è passata …e sia benedetto il piano P.I.G!!!


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Rolling Northward - Rotolando verso Nord (quarta parte)

“Se Cristoforo Colombo avesse dato retta a sua madre e si fosse trovato un lavoro fisso, non avrebbe mai scoperto l’America”((Lee Ward Shore)


Seconda e ultima tappa: Styrsö. Keithy è così ossessionata dall’idea di visitare quell’isola e il suo paesino che al primo sentore di attracco si scaglia fuori dal battello trascinandosi dietro una starnazzante Micky.
“Non ce l’ho nemmeno fatta ad andare in bagno!” protesta costei.
Anche qui occorre sapere che Micky ha un’autonomia di vescica pari a quella di un novantenne incontinente: ecco perché il Buon Dio l’ha dotata del pratico superpotere ‘radar-bagno’. È infatti capace di percepire e avvistare un bagno gratuito nel raggio di 3 km nel giro di 10 secondi. Purtroppo quello di Styrsö è ben più lontano perché le due, nella foga di sbarcare, sono scese alla banchina sbagliata e il paese si trova nella parte opposta dell’isola.


“Vabbè, Micky” le dice Keithy “Siamo nel nulla, è pieno di boschi, falla dietro a quel cespuglio”
“Mica passerà qualcuno??”
“Ma dai!”
Invece, in quei 15 secondi che Micky impiega per svuotarsi la vescica, passa da quel sentiero più gente che il giorno avanti nel centro di Göteborg: praticamente tutta la Svezia. Un po’ imbarazzate, le pessime si rimettono in cammino.
Di nuovo si arrampicano per micro-colline, ruzzolano per improvvisi pendii e rischiano tre o quattro volte di essere investite dalle automobiline elettriche in circolazione: gli unici mezzi consentiti sulle isole. 



Dopo tali mirabolanti avventure, pervengono al paesello tanto agognato per scoprire che è uguale identico ai precedenti, a parte una differenza cruciale: qui c’è perfino un ristorante. E’ ora di pranzo e c’è un impellente bisogno di calorie e toilettes. Bivaccando e gozzovigliando, Micky e Keithy stanno quasi per perdere l’unico traghetto che le potrebbe riportare sul continente. Quella sera decidono di mangiare all’ostello, dove consumano una curiosa cena a base di pietanze ignote e ignobili, tra lo stupore e la quasi ammirazione dei muratori polacchi.


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Rolling Northward - Rotolando verso Nord (terza parte)

“Tobia: È il Signore che vi manda!
Bambino: No, passavamo di qui per caso.” (Da ‘Lo chiamavano Trinità) 


Ma le nostre eroine, una volta scovato Haga, non hanno  più bisogno di nulla se non dei loro nasi allenati a fiutare l’odore dei dolci appena sfornati e delle loro bocche pronte a rimpinzarsi di kanelbullar, le tipiche ciambelline svedesi alla cannella.
Quando giungono al Café Husaren, casa natale del Ciambellone Gigante,  a Micky vengono le lacrime agli occhi dalla commozione: sta realizzando la propria missione karmica. “Io sarei già a posto” dice estasiata a Keithy, masticando l’ultimo pezzo di ciambella “Ma ti aiuterò a portare a termine il tuo nobile fine, ossia pranzare al mercato del pesce e poi visitare l’Arcipelago Sud”
“Diamine!” risponde l’altra tracannandosi una litrata di caffè a sbafo “Magari troveremo anche altri dolci al mercato o sulle isole”
Questo rinfranca assai Micky.


Con dolore si dipartono dalla Casa del Ciambellone Gigante alla Cannella e iniziano a girare per il centro di Göteborg come anime in pena. Fortunatamente il piano P.I.G vene in loro soccorso. Dietro l’ennesima pasticceria si materializza un fantomatico box per le informazioni turistiche e le due reperiscono una mappa nonché tutte le informazioni necessarie per rientrare all’ostello e per andare alle isole l’indomani.
Poiché i pub e ristoranti locali propongono prezzi proibitivi per le loro magre finanze, la prima giornata si conclude tragicamente in un ristorante indiano dove Micky e Keithy aspettano più di un’ora prima di essere servite. La loro rabbia furibonda si placa però all’istante non appena il cameriere offre loro il dessert gratis.


Arriviamo dunque al fatidico giorno della gita sulle isole. L’arcipelago Sud di Göteborg è uno stillicidio di deliziose isolette dai nomi impronunciabili, servite da traghetti comodi e dotati di ogni comfort. Micky e Keithy si imbarcano su uno a caso che, per l’appunto, le mena fino Vrångö, lo scoglio più remoto e deserto di tutti. Ovviamente piove e tira un vento tipo bora siberiana.
“Mica ci lasceranno qui per sempre, vero?” borbotta Micky scendendo su quella landa desolata.
“Guarda là, Micky, c’è un café-pasticceria sul molo!” esclama Keithy raggiante.
“Beh, in fondo, non sarebbe una tragedia” conclude Micky.


Le due zampettano allegramente per l’unico minuscolo villaggio, s’inerpicano su massi con vista-isola e infine s’imboscano nel locale per papparsi una megapalla al cioccolato e avena dal minaccioso nome di chokobulle.
“Sembra che qui il bullismo dilaghi” osserva sapientemente Keithy “Si trova citato perfino in tutti i nomi di dolci!”
Nonostante l’amministrazione di Göteborg sperasse di liberarsi delle fameliche relegandole a vita in quella specie di Sant’Elena, non è stato considerato che una pasticceria sul molo è un’ottima location per avvistare i pochi traghetti di passaggio e quindi abbandonare Vrångö.


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Rolling Northward - Rotolando verso Nord (seconda parte)

“Grazie eh, Spirito Santo. La prossima volta chiedo direttamente aiuto a Satana!” (Sara & Un Corso in Miracoli)


La reception dell’ostello, che per motivi di risparmio, è aperta solo un’ora al giorno e in orari improponibili, ha inviato loro un codice  numerico di accesso - altra grande fonte di ansia per le due svampite. Tuttavia, con la sua innata abilità di scassinatrice, Keithy apre la porta e si inoltrano nei corridoi fino alla loro camera. 
Quest’ultima ha le dimensioni di un loculo ma nel complesso è dignitosa. Le due balorde sono state intenzionalmente ubicate in un piano colonizzato prevalentemente da muratori polacchi, nella speranza  che tale compagnia disincentivi in loro il desiderio di un più lungo soggiorno. In realtà sono gli stessi muratori polacchi a lamentarsi delle nuove arrivate, la cui onnipresenza nei due unici bagni al piano diventa discretamente fastidiosa. 


Tutt’ora i poveretti si chiedono quale singolare dono di ubiquità abbia permesso a quei due esseri quasi femminili d’ingombrare entrambi i bagni a qualsiasi ora del giorno e della notte. Mistero.  Inoltre: dopo cotanta permanenza alle toilettes, le due buzzurre dovrebbero uscire di lì belle e tirate almeno come Angelina Jolie e Scarlett Johansson…invece no! Eccole sempre sciaguattate e a malapena presentabili.
Dunque, quella prima mattina svedese, Micky si sveglia con un glorioso proposito: “Keithy, ricordi? Il nostro pellegrinaggio!”
“I nostrI pellegrinaggI” la corregge l’amica dall’alto del lettino a castello, sembra la voce di Dio. “Dobbiamo adempiere ai nostri doveri. Del resto, siamo venute quassù esclusivamente per questo.”
Bisogna infatti sapere che Micky e Keithy sono giunte in Svezia ricolme di indirizzi relativi a tappe irrinunciabili del viaggio. Musei? Monumenti? Giardini? Assolutamente no: pasticcerie, café e ristoranti. Il 90% di essi si trova nel caratteristico quartiere di Haga.


Ora, di prima mattina, senza mappa della città, senza internet e senza caffè - nell’ostello non è inclusa la colazione - le nostre protagoniste sono realmente due criminali a piede libero. Affamata e rimbambita, Micky inizia a molestare ogni svedese discreto e all’apparenza gentile che ha la sfortuna d’incontrarle per strada. Al settimo svedese, Keithy alza gli occhi al cielo e miracolosamente legge ‘HAGA’. E’ scritto a caratteri cubitali su striscioni che attraversano in alto le varie vie.
“Guarda, Micky, ci siamo!”
“Certo che sono ben organizzati qui” risponde l’altra comare.
Non sanno, le duplici, che l’amministrazione comunale, a seguito delle lamentele degli svedesi importunati, ha  provveduto a rendere esecutivo il famoso piano P.I.G, Pericolo Italiano a Göteborg, già predisposto da fine anni settanta, allorché Micky e Keithy erano ancora in culla. Con tale piano, la città si augura di facilitare gli spostamenti e in generale la vacanza delle due italiane, al fine di rispedirle in patria soddisfatte e senza troppo danno alla popolazione locale.


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Rolling Northward - Rotolando verso Nord (prima parte)

“I miei genitori mi mandano spesso a trascorrere l’estate con i nonni. Ma io detesto i cimiteri.” (Chris Fonseca)


Vi presento le eroine di questa storia, Micky and Keithy, nomi strategicamente derivati dai loro idoli rock Mick Jagger and Keith Richards. Costoro, che si sono trastullate fino a fine estate senza mai decidersi di partire per le vacanze, decidono in un quattro e quattr’otto di volare in Nord Europa. Alla Scandinavia si gela il sangue nelle vene, e dire che è ben abituata al freddo. I vari comuni e municipalità nordiche fanno scongiuri e sacrifici a Odino nella speranza che le due malfamate non scelgano il loro stato o la loro città.
A seguito di lunghe ponderazioni, il cui unico discrimine è di mera natura economica, Micky e Keithy optano per la città svedese di Göteborg. Tra l’altro Micky, che in gioventù ha già ampiamente infestato la Svezia con la sua presenza e  i suoi intrallazzi sentimentali, non ha ancora visitato la suddetta meta.


Fissato il volo e il più bieco ostello sul mercato, iniziano le interminabili quanto oziose disquisizioni sul clima putativo e sul potenziale contenuto delle valigie. Dopo notti insonni, Micky fa uno sbrigativo copia-incolla del vestiario che si è portata due mesi avanti in Germania mentre Keithy, più flessibile e previdente, aggiunge anche gli infradito per fronteggiare igienicamente i loschi bagni collettivi dell’ostello.
Partenza a inizio settembre: Keithy già mezza malazzata e Micky zoppa e incerottata. Secondo la vulgata della medicina psicosomatica, non è difficile scorgere qui una serie di autosabotaggi dovuti all’ansia del viaggio.
“Mah, Micky” fa Keithy guardando il volto incerottato dell’amica “Secondo me quei popoli civilizzati ti fermano all’aeroporto e t’internano direttamente in un lazzaretto, vedi mai che gli attacchi l’ebola”


Questo non rinfranca molto Micky. Tuttavia, per effetto del karma istantaneo così magicamente efficace nell’Era dell’Acquario,  quella che viene bloccata ai controlli è proprio Keithy, alla quale requisiscono subito gli stivaloni-anfibio prendendola per un travestito sado-maso. La ragazza è costretta a trotterellare scalza per mezzo aeroporto prima di riabbracciare i suoi amati scarponi.
Scese a Göteborg, le due pesti si fiondano a razzo nel primo caffè dell’aeroporto dove danno inizio alla sagra della Pappatoia a suon di torta crumbles con salsa alla vaniglia. A pancia piena, torna loro quel minimo di lucidità necessaria per prendere un taxi e farsi scarrozzare fino all’ostello, visto che è sera tardi. 
“Meno male che ci sei te a comunicare con gli indigeni” commenta Keithy, osservando l’amica operativa e ciarliera.
“Mica ci sto parlando in svedese, eh!” ribatte quella.
“Ma nemmeno in toscano, mi pare”
Da questo breve scambio di battute, possiamo facilmente evincere il grado di conoscenza che Keithy (non) ha della lingua inglese.


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lunedì 11 luglio 2016

HOMO SUM… - Abissi e splendori

“Homo sum: humani nihil a me alienum puto - Sono un uomo: niente di umano mi è estraneo” (Terenzio)

“Visione: Gli umani sono strani. Credono che l’ordine e il caos siano in qualche modo opposti, e cercano di controllare ciò che non si può. Ma c’è grazia nei loro fallimenti e questo tu non lo hai compreso.
Ultron: Gli umani sono spacciati.
Visione: Sì.  Ma una cosa non è bella solo perché dura nel tempo; è un privilegio essere tra loro.” (Avengers: age of Ultron)



Spesso, quando parlo del mio lavoro come counselor, mi viene chiesta o attribuita qualche ulteriore definizione, tipo psicologa, psicoterapeuta, coach o qualche sorta di consulente. L’unica ‘etichetta’ che invece sento di potermi dare, e che peraltro rispecchia la realtà dei fatti,  è quella di ‘umanista'.
In primo luogo ciò rappresenta la mia formazione antecedente al counseling, poiché mi sono laureata in lingue e letterature straniere. In secondo luogo, tale definizione risulta adeguata anche da una prospettiva più filosofica: ho sempre considerato l’essere umano il mio oggetto di studio privilegiato, ritenendolo un fenomeno ben più ampio, ricco e variegato dell’insieme dei suoi bisogni, dei suoi istinti o delle sue abilità intellettuali.


Nella mia esperienza, ho trovato che lo splendore, la forza e la bellezza dell’umanità - così come anche la sua angoscia, la sua incongruenza e il suo turbamento - siano forse meglio rappresentati da una poesia, da un quadro o da una canzone che da un manuale di psicologia o da un libro di anatomia.
Ecco perché, a dispetto delle disillusioni e delle incomprensioni date e ricevute, continuo a nutrire  fiducia nell’incontro con l’altro, sia nel mio studio che nella mia vita. Il mio umanesimo pone il presupposto di un’accoglienza incondizionata a priori - ti accolgo perché ci sei, perché sei fondamentalmente come me. Guardando poi anche al tessuto sociale di cui tutti siamo parte, tu, in ultima analisi, sei una parte di me e attaccarti o nutrire sfiducia in te sarebbe attaccare e sfiduciare me stessa.


D’altro canto, la cosa che percepisco come più disumanizzante è l’anestesia del sentire. Questa, nel migliore dei casi, produce rigidità e vuoto formalismo all’interno delle relazioni; nell’ipotesi peggiore, può portare a uccidere in nome di un’ideologia, di una religione, di un posto nel parcheggio. Se l’uomo si fermasse non solo a riflettere ma anche a percepire con il suo cuore, non potrebbe realmente alzare una mano contro un proprio simile, in quanto lo riconoscerebbe e si riconoscerebbe come tale. 
Mi sono accorta che, personalmente, posso tollerare di esser impotente di fronte ai fatti - ma difficilmente tollero l'impotenza di fronte ai miei sentimenti. Forse il vero coraggio e la vera umanità sta proprio nel sentirli e affrontarli anche quando fanno male, quando mi interrogano e mettono in dubbio la vita come l’ho costruita, quando mi portano a prendere posizioni o fare scelte che mi schiodano dalla zona di comfort, quando mi chiamano ad apprendere, rispondere, rimettermi in gioco.


Per prenotare un trattamento olistico o un colloquio  di Counseling contattatemi attraverso il mio sito  Le Vie per l'Armonia.