-Forse non son vissuto come dovevo?- gli venne in mente a un tratto - Ma come può essere, se ho sempre fatto ciò che tutti altri fanno, ciò che conviene fare secondo la società? Cosa mi è sfuggito?”(Lev Tolstoj “La morte di Ivan Ilic”)
Siamo costantemente immersi nel frastuono della vita quotidiana con le sue mille faccende da sbrigare: le questioni con i figli, col partner, il lavoro, le chiacchiere di convenienza, i social network, le bollette, le scadenze…una lista che potrebbe non finire mai. Siamo continuamente di corsa, in ansia, annaspando sulla superficie della vita per tenerci faticosamente a galla o per ottenere un briciolo di affetto e di approvazione. Potremmo continuare così fino alla vecchiaia, se abbiamo fortuna, e poi a un certo punto guardarci indietro e essere colti dal panico di fronte alla domanda: ‘Ma ho vissuto veramente?’
Potremmo trovarci a una resa dei conti, a un bilancio personale che non ci interroga su quanto siamo stati bravi o buoni, se mia madre sarebbe felice di me o se mio figlio avrà successo. Si tratta piuttosto di domande come ‘Ho dato un senso alla mia vita? Ho espresso le mie potenzialità, la mia unicità? O mi sono limitata a seguire la corrente, a fare ciò che hanno fatto i miei genitori, le mie amiche, quello che ci si aspettava da me? Mi sono lasciata trasportare dagli eventi oppure ho preso in mano la mia esistenza e, pur tra cadute e resurrezioni, errori e illuminazioni, ho dato pienezza e significato al mio essere qui? Ho rischiato, ho osato essere me stessa?”
Mi viene in mente il pianto di Ivan Ilic, il protagonista della famosa novella di Tolstoj citata in apertura di questo post. Ivan Ilic è uomo affermato, con un matrimonio felice, che a un certo punto scopre di avere una malattia incurabile. Gli ultimi giorni della sua vita viene colto da un pianto esplosivo e inconsolabile; non è paura della morte, è piuttosto il dolore di aver mancato la vera vita. È il pianto primigenio, il grido esistenziale di chi solo all’ultimo si accorge di aver vissuto una vita inconsapevole - una vita senz’anima, come la definisco io.
Non seguiamo il suo esempio, torniamo a noi stessi in tempo, torniamo al nostro centro, alla nostra unicità di esseri umani. Pensiamoci adesso, alla possibilità di dare una direzione e un significato unico, creativo e pieno alla nostra esistenza. Non andiamocene con grani di sabbia che scivolano tra le dita; creiamo qualche gemma di significato, qualche momento di preziosa pienezza.
In fondo, l’unico abbandono possibile su questo pianeta è il nostro: sono io che lascio me stessa. Io mi dimentico, io non mi rispondo sul mio whatsapp interiore, io mi lascio allontanare dalla mia autenticità, dal mio centro vitale. Gli altri rifiuti, gli altri abbandoni, sono solo variazioni su tema di questa prima perdita esistenziale, il mio io che si disperde nel mondo.
Ri-troviamoci. Ri-connettiamoci. Ri-abbracciamoci.
Sarà sull’onda di questo profondo matrimonio con noi stessi che potremo realmente incontrare e toccare il cuore di chiunque altro, sia esso mio figlio, il mio compagno, i miei genitori, i miei amici, l’umanità intera.
Sarebbe triste se alla fine della vita il bilancio fosse in passivo.
RispondiEliminaForse più della morte stessa.