“Parliamo di forza distruttiva e realmente la forma è distrutta, ma nella rottura della forma qualcosa viene liberato. Se fossimo in grado di ricordare sapremmo subito, in presenza di qualsiasi forma dissipata, che siamo anche di fronte a una vita allargata.” (A.R. Weaver)
“Wie froh bin ich, dass ich weg bin - Come sono felice, di essere andato via” (Incipit del ‘I dolori del giovane Werther’, J.W.Goethe)
In molte citazioni e aforismi viene sottolineato il legame tra l’aspirazione alla libertà e la virtù del coraggio: sembrano quasi affermare che la libertà è per i coraggiosi, più che per gli oppressi. L’oppresso può arrivare al grado di disperazione tale in cui non ha più nulla da perdere ed ecco che diviene coraggioso e agisce coerentemente a quello che per lui, in quel determinato momento, rappresenta la possibilità di liberazione.
Come mai qualcosa come la libertà, comunemente connotata in senso positivo, viene così scarsamente applicata e associata alla richiesta di coraggio? Forse perché il processo di liberazione, necessario per conseguire una maggiore percezione di libertà, ha molto a che fare con uno dei tabù della nostra società : la morte. Morte di cosa? Il più delle volte si tratta di morti psicologiche, legate a qualche immagine di noi a cui siamo affettuosamente attaccati: ‘La studentessa modello’, ‘il manager di successo’, ‘la fidanzata di…’, ‘il figlio perfetto’, ‘la madre buona’ ecc…
Oppure la morte di una relazione, anch’essa una vera e propria entità psicologica ed energetica che trascende i singoli membri e che lotta per sopravvivere, talvolta a scapito della salute o della felicità dei suoi ’creatori’. Ogni forma è un sistema, ossia un campo di energia e coscienza, sia essa un gruppo, una coppia, una famiglia, un individuo o anche semplicemente una convenzione sociale o un ruolo stereotipato con cui ci identifichiamo. Nel caso della relazione di coppia è spesso più facile infliggerle una morte apparentemente parziale attraverso il tradimento piuttosto che tentare di rifondare il patto di amore e intimità oppure lasciarsi.
Il tema della morte percorre molta della nostra letteratura e viene spesso inteso come un trascendere il limite umano pervenendo a un maggior grado di liberà e conoscenza. Da qui è sorto anche un culto malsano della morte fisica come se fosse realmente necessaria per attingere a chissà quale grado di evoluzione, laddove il più delle volte è un miope tentativo di sottrarsi alle proprie responsabilità o una protesta contro la vita che non va come vorremmo noi. Ritengo tuttavia molto più coraggioso restare su questo piano di vita e affrontare quotidianamente le morti interiori che derivano dal mettersi in discussione, chiedere scusa, rompere relazioni patologiche, cercare nuove risorse o sperimentare un po’ di silenzio e solitudine.
Sperimentare un autentico senso di libertà sembrerebbe quindi possibile nella misura in cui sappiamo gestire e integrare in noi il concetto di separazione, perdita, fine. Ciò presuppone un reale coraggio, inteso come fiducia nella vita, nei suoi processi invisibili di rinascita ed espansione, nella sua abbondanza e nella sua giustizia che sfida la nostra comprensione limitata. Saremo più liberi - e forse anche più in pace- nel grado in cui sapremo veder zampillare da una fine, un nuovo inizio - e da una morte, una vita più piena immersa in una forma più ampia e vasta.
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