“Le parole falliscono, ci sono momenti in cui anche loro falliscono.”(Samuel Beckett)
English version at the link:The language of silent things
A volte mi diverto a fare un gioco di accostamento, giustapposizione e dialogo su di un determinato tema, tra i miei scrittori e intellettuali preferiti. Mi diverto male, ne sono consapevole, ma evidentemente ognuno ha i piaceri - o le perversioni - che si merita.
Qui di seguito ho messo confronto le parole di due autori austriaci tratte da due loro famose opere: il filosofo Ludwig Wittgenstein, con il finale del suo Tractatus Logicus-Philosophicus, e il poeta e drammaturgo Hugo von Hofmannsthal, con la toccante chiusura alla sua Lettera di Lord Chandos.
I temi salienti sono l’ineffabile, l’epifania del reale e il linguaggio alle soglie del silenzio. Per me, che sono poetessa, tale linguaggio è senza dubbio quello poetico, tuttavia è meraviglioso vedere come filosofia e letteratura possono essere due strumenti diversi ma complementari per tentare di narrare, cantare o esplorare l’insondabile, inafferrabile Mistero della stessa Vita.
Qui di seguito il link al video con la lettura del testo e poi il testo stesso.
Video su Youtube: Duetto tra Wittgenstein e Hofmannsthal
Duetto:
Wittgenstein: Noi sentiamo che, anche se si dà risposta a tutte le domande scientifiche possibili, i problemi della nostra vita non risultano ancora neanche toccati. Certo non rimane allora proprio nessuna domanda; e proprio questa è la risposta.
Hofmannsthal : In tali momenti una qualsiasi creatura insignificante, un cane, un topo, un insetto, un melo intristito, una carrareccia che si snoda sulla collina, una pietra muscosa vengono a significare per me assai più dell’amante più bella e generosa nella più felice delle notti. Queste creature mute, talvolta inanimate, si levano verso di me con una tale pienezza, una tale presenza d’amore, che il mio occhio allietato non riesce a scorgere intorno nulla che sia morto.
Wittgenstein: Vi è in effetti qualcosa di indicibile. Ciò si mostra, è il mistico.
H: Mi pare che tutto, tutto quello che c’è, tutto di cui mi sovviene, tutto quanto sfiorano i miei confusi pensieri, sia qualche cosa. Anche la pesantezza, la strana ottusità del mio cervello mi appare come una qualche cosa. Sento dentro di me e attorno a me una solleticante infinita rispondenza, e tra gli elementi che si contrappongono nel gioco non c’è alcuno in cui non sarei in condizione di trasfondermi. Mi sembra allora che il mio corpo sia fatto di pure cifre, che mi rivelano il segreto di ogni cosa. O che potremmo entrare in un nuovo significante rapporto con tutto il creato, se cominciassimo a pensare col cuore.
Wittgenstein: Le mie proposizioni chiarificano qualcosa perché colui che mi comprende le riconosce, alla fine, come insensate, quando egli attraverso esse – su di esse – le ha oltrepassate. (Egli deve per così dire gettar via la scala dopo averla usata per salire.)
Egli deve trascendere queste proposizioni, e allora vede il mondo correttamente.
Hofmannsthal: Ma quando questo strano incantamento mi abbandona, non sono capace di parlarne, e non saprei spiegare con parole sensate in cosa sia consistita questa armonia che compenetra me e il mondo intero e in qual modo mi si sia palesata, esattamente come non potrei precisare i moti delle mie viscere e i sussulti del mio sangue. […] perché la lingua in cui mi sarebbe dato non solo di scrivere, ma forse anche di pensare, non è il latino né l’inglese né l’italiano o lo spagnolo, ma una lingua di cui non una sola parola mi è nota, una lingua in cui mi parlano le cose mute, e in cui forse un giorno, nella tomba, mi troverò a rispondere a un giudice sconosciuto.
Wittgenstein:: su ciò di cui non si può parlare, occorre tacere.