“You know, I believe that true focus lies somewhere between rage and serenity - Sai, credo che il vero punto focale stia in un punto di equilibrio a metà tra rabbia e serenità.” (Professor Charles Xavier in ‘X-Men - L’inizio’)
Nella nostra esperienza di relazione, con gli amici, con i partner o addirittura con noi stessi, forse talvolta ci siamo chiesti quale sia la giusta attitudine interiore da assumere, quella più funzionale, più rispettosa e più amorevole allo stesso tempo. Forse ci siamo accorti che lasciarsi risucchiare totalmente dai drammi degli altri non è di reale aiuto né a loro né tantomeno a noi - così come non lo è ergere un muro di separazione e indifferenza cercando di tutelarci dall’onda emotiva che, in alcuni momenti, può investire un rapporto.
Non a caso, sul Sentiero, si sente spesso parlare della ‘via sottile come filo di rasoio, che passa fra le coppie di opposti’. Possiamo trovare un esempio di ciò proprio in quella ‘giusta distanza’ che siamo chiamati costantemente a modulare e ricalibrare in ogni relazione - compresa quella con noi stessi - e che, tra l’altro, salva la relazione dall’automatismo e dall’essere data per scontata. La giusta distanza relazionale è infatti una posizione dinamica della coscienza che richiede il regolare esercizio dell’attenzione, virtù cardinale alla base di tutte le dinamiche tra esseri viventi.
Comunemente ci barcameniamo in modo più o meno cosciente tra attimi di estrema fusione/identificazione e attimi di totale differenziazione/alienazione dai drammi o dalle storie dell’altro. E’ un po’ il dilemma dei porcospini di Schopenauer: troppo vicini ci pungiamo, troppo lontani patiamo il freddo. Saper trovare il punto di autentico contatto con l’altro e con noi stessi è dunque l’opera di tutta una vita: si tratta di quel luogo non-luogo in cui s’incontrano amore e saggezza, partecipazione e sano distacco, empatia e lucidità.
L’empatia autentica scaturisce dal riconoscere intimamente che l’altro è ‘della stessa stoffa di cui siamo fatti noi’, per cui aldilà dell’apparente varietà e diversità delle sue storie e vicende, siamo capaci di percepire che le emozioni e qualità alla base dei suoi drammi sono le stesse che vibrano al cuore dei nostri. La saggezza o chiarezza di percezione d’altro canto, derivano dal non colludere in toto con le storie che ci raccontiamo, o che gli altri ci raccontano, al fine (di solito inconsapevole) di confermare i loro drammi e i loro ruoli da vincitori o da vittime. Con questo, beninteso, non si vuole disconfemare l’esperienza propria o altrui: si tratta invece di smettere di nutrire quelle parti di noi e degli altri che desiderano il dramma piuttosto che la sua soluzione o la sua accettazione.
Una delle mie insegnanti preferite e più radicali, Byron Katie, sostiene che ‘in presenza di qualcuno che non vede il problema, il problema decade’. Questo non significa negare o reprimere il disagio bensì approcciarsi ad esso come se fosse già risolto e passato - e nella mia esperienza, effettivamente, non c’è disagio che possa persistere nel presente se non con un volontario atto di trattenimento e spostamento mentale nel passato o nel futuro.
Ph. Elena Pratelli e Roberto Cei
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