sabato 24 maggio 2014

DIS-INTEGRAZIONE 2 – Un’affettuosa auto-osservazione

“E’ torpida” disse Camier “Ma sotto la superficie, si prepara un disastro”“E cosa conti di fare , a quel punto?” disse Mercier.  “Non oso pensarci” rispose Camier (Samuel Beckett)




Non m’interessa, in questa sede, analizzare o ricercare le possibili cause della dis-integrazione, quanto piuttosto esaminare le implicazioni pratiche che ciò comporta.
Se una persona ha raggiunto una certa età strutturandosi in un certo modo, è una pia illusione sperare che cambi, specie secondo i nostri bisogni o le nostre tempistiche. Provare per credere. Quando la personalità è formata ( e ciò non implica che sia matura o integrata) le modifiche o le aperture al nuovo avvengono di solito con una discreta fatica, a sua volta sostenuta da un sincero desiderio in tal senso. Il cambiamento si verifica spesso per apprendimento di modalità nuove o dis-apprendimento di schemi ormai sclerotizzati – la premessa è dunque il mettersi, almeno in una certa misura, in discussione.



Già quando c’è un sincero desiderio e una ferma intenzione di evoluzione, la gravità, l’inerzia , lo status quo o semplicemente l’orgoglio mentale sono comunque deterrenti piuttosto forti. Inoltre, i tempi e i modi della crescita interiore hanno la sfortunata prerogativa di non essere né immediatamente misurabili né pianificabili a tavolino.
Perciò, come indicazione pragmatica, sarebbe auspicabile nei rapporti col nostro malcapitato prossimo  restare il più possibile a contatto con la realtà -con i fatti-  senza farsi sedurre troppo dai discorsi o dai nostri stessi desideri e aspettative. Tale principio di sensato realismo potrebbe anche essere applicato alla relazione con sé stessi, e lo sintetizzerei in un paio di concetti : affettuosa auto-osservazione e serena fiducia nel processo vitale.

Parrucca della linea Luigi14 e foto di Chiara Benelli 

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DIS-INTEGRAZIONE 1 – Ovvero ‘Chi fu costui/costei?’

“You’re just like a dream - sei proprio come un sogno” (The Cure)

Non è detto che la personalità dis-integrata sia necessariamente patologica o disadattata. Anzi, è lo stato ‘normale’ di buona parte dell’umanità attuale ed è anche il miglior assetto possibile per un individuo in un dato momento. Quindi ‘i miei rispetti’,  come si suol dire.
Cosa s’intende con dis-integrata?
Non che sia sopravvissuta allo scoppio di una bomba, chiaro. Piuttosto che la consapevolezza della persona non ha grande continuità né, soprattutto, un’ omogeneità trasversale ai vari livelli di esperienza. Per dirla alla Battiato, non c’è ‘un centro di gravità permanente’, un riferimento stabile e fisso, anche se l’individuo in questione risponde sempre allo stesso nome (più o meno).


E’ come se, nel corso della giornata,  recitasse vari ruoli identificandosi via via con i vari aspetti del suo sé - senza però una reale coerenza. Per fare un esempio : la persona potrebbe avere un ‘io professionale’ molto efficiente o molto empatico verso i colleghi, qualità che però non si riscontrano nel suo ‘io personale’ o nelle sue relazioni affettive. L’impressione è che queste sub-personalità non comunichino tra di loro e l’individuo funzioni a compartimenti stagni a seconda del momento e della situazione a cui reagisce. 
Non di rado si sentono discorsi del tipo ‘Lo vedevo commuoversi per un film pensavo “è un uomo sensibile”. Eppure nel nostro rapporto o con gli amici è asettico e fa fatica a dimostrare tenerezza.’ Oppure ‘ Sembrava così autonoma, lucida e sensata come collega di lavoro. Poi, nella vita privata, non c’è modo di farci un discorso ragionevole'.
Parrucca della linea Luigi14 e foto di Chiara Benelli 

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sabato 17 maggio 2014

LA FINE E L’INIZIO 2 - La tristezza e l’amore

“And in the end, the love you make is equal to the love you take”(Lennon-McCartney)


Nel darmi dunque, ho ricevuto. 
E nel ricevere sono rimasto integro, cioè intero, completo -  perfino arricchito di quella persona, di quel lavoro, di quell’esperienza.
Questo è il presupposto per un autentico nuovo inizio, perché parto con una dimensione in più, prima percepita come qualità esterna e poi riconosciuta e sperimentata come qualcosa di mio.


Per questo, a un certo punto, la tristezza della separazione può dolcemente trasformarsi nella tenerezza dell’amore, inteso come ri-unione, ricongiunzione con quella persona o con quel vissuto a un livello più sacro e profondo.
Nella realtà interiore dunque, non rischio mai la perdita. Piuttosto il vero rischio è che, negando o evitando la fase della fine - per una naturale paura del dolore- non si con-prenda quanto invece di perdere, abbiamo acquistato. Continuiamo a sentirci vuoti e mancanti e può darsi che nella prossima esperienza o relazione riproduciamo esattamente ciò che è appena stato, inclusi gli errori che forse hanno provocato la rottura. Non c’è inizio, c’è una falsa continuazione.



Un inizio, per quanto faticoso e imperfetto, testimonia sempre la migliore armonia possibile per quella persona o per quella situazione in quel determinato momento. E’ un tentativo, un interrogativo che si apre al possibile. Da un inizio si può sempre continuare. A costruire. E a migliorare.

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LA FINE E L’INIZIO - Il non-detto

“E’ meglio che alcune cose restino non dette. Ma probabilmente mi ubriacherò e le dirò comunque. - Some things are better left unsaid. But I'm probably gonna get drunk and say them anyway”  (Anonimo)



Sulla fine non si può mai dire tutto. Tutto ciò che viviamo intensamente e pienamente sfugge ad essere incasellato  - e ridotto- dalle parole. 
La fine ci misura col nostro limite, col fatto che ogni relazione umana è intrinsecamente imperfetta. Imperfetta nel senso letterale del termine : inconclusa, inesaurita e inesauribile. Anche la relazione o l’esperienza più appagante -fisicamente, emotivamente, intellettualmente -è soggetta a una qualche forma di fine, non fosse altro che per il fatto che nel mondo come lo conosciamo le forme si dissolvono. 


Ciò fa sì che ogni fine - e non parlo solo della morte ma anche della chiusura di una relazione, di un lavoro, di un percorso di studio- porta con sé un piccolo lutto. Generalmente noi lo neghiamo ed evitiamo buttandosi a capofitto in una nuova storia, in un nuovo progetto, in un nuovo percorso. Ogni fine è sempre un po’ dolorosa ma può essere possibile e più leggera quando ci siamo scambiati realmente qualcosa. Se non si elabora la fine, in realtà non siamo veramente pronti per un nuovo inizio
Occorre, a mio avviso, uno spazio-tempo in cui mi dò la possibilità assimilare l’esperienza appena conclusa. Quando in un rapporto, o in un contesto ho ap- preso e allo stesso tempo ho dato, ho anche integrato in me qualcosa che non mi potrà più essere tolto, qualcosa di essenziale, non soggetto a decadimento o a dissoluzione fisica.


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lunedì 12 maggio 2014

STRUMENTI DI COUNSELING TRASFORMATIVO 3 - Me & The Work

“When you argue with reality, you lose, but only 100% of the time. - Quando discuti con la realtà, perdi - ma solo il 100% delle volte" Byron Katie


Come Byron Katie specifica, The Work è un’esperienza e non una teoria, così come lo sono la stessa relazione d’aiuto, o altri strumenti tipo la meditazione e l’analisi. Lo affermo con una certa cognizione di causa poiché lo utilizzo da quasi dieci anni ormai e ne sperimento gli effetti  e i risultati su di me giorno dopo giorno. Essendo una tecnica relativamente nuova e non conosciuta in  Italia, forse vale anche la pena raccontare come mi ci sono imbattuta.


Nell’estate del 2004, mentre ero in Provenza a fare traduzioni alle sedute di uno psicoterapeuta americano, feci amicizia con una terapeuta tedesca, Margit. Venne a trovarmi qualche mese dopo in Italia e mi portò appunto un libro introduttivo su The Work. Non era  scritto da Byron Katie, bensì da uno psicoterapeuta tedesco che si era formato con lei in questa tecnica. Benché il tedesco mi sia meno accessibile dell’inglese, ricordo che riuscii a capire il succo del messaggio ma decisi di non trasformarlo in pratica, almeno per il  momento. ‘Sapevo’ che  era comunque qualcosa a cui potevo attingere  allorché ne avessi sentito il bisogno e così poi di fatto  è stato: ho iniziato a ‘praticare’ The Work solo un anno dopo.


Insieme al Tao Te Ching (declinato nella forma pratica del libro 'Corpo che pensa, mente che danza' di Jerry Lynch e Chungliang Al Huang), Anthony De Mello e A Course in Miracles, posso dire che The Work è stato uno degli strumenti più efficaci per uscire dalla paura e iniziare a fluire un po' più serenamente nella vita. Con The Work ho curato i miei stessi attacchi d''ansia... quindi non posso che essere estremamente grata A Byron Katie e al suo Lavoro. Provare per credere ;)!



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STRUMENTI DI COUNSELING TRASFORMATIVO 2 - Byron Katie e le quattro domande

“Don't believe every thing you think - Non credere a tutto ciò che pensi” (B.Katie)



Byron Katie è una donna californiana che, grazie a un’improvvisa esperienza di trasformazione, è uscita da una depressione decennale sviluppando un metodo d’indagine sui pensieri denominato ‘The Work’, il ‘Lavoro’. 
In un lampo di intuizione, Katie comprese che i nostri tentativi di trovare la felicità procedono al contrario: invece di cercare disperatamente di adeguare il mondo ai nostri pensieri su di esso e su come dovrebbe essere, noi possiamo capovolgere il problema, e mettere in discussione proprio tali pensieri, confrontandoci così con la realtà come essa è, e vivere un'esperienza inimmaginabile di gioia e libertà. Tutto questo sarebbe rimasto un percorso singolo di autorealizzazione se Katie non avesse elaborato questo metodo di indagine semplice, ma molto efficace, che facilita la rivoluzione mentale in lei  spontaneamente ‘avvenuta’ ma che può anche essere ‘indotta’ e ‘appresa’. 


Di per sé la tecnica può apparire banale: consiste infatti di quattro domande e un ‘turnaround’(che  in italiano è stato reso con ‘rigiro’).  Tuttavia questi semplici passi, se calibrati e indirizzati in modo appropriato,  assorbono la forza stessa del problema e gliela ritorcono contro, portando alla luce aspetti utili alla comprensione e all’eventuale risoluzione di esso.
Esaminiamo un po’ più in dettaglio come funziona questo metodo. Schematicamente si può dire che prendiamo un nostro giudizio su qualcuno, oppure un pensiero che ci stressa, lo scriviamo su di un foglio e lo poniamo sotto inchiesta con quattro semplici domande :
  1. E' vero questo?
  2. Puoi veramente sapere che è vero?
  3. Come reagisci quando pensi questo pensiero?
  4. Chi o cosa saresti senza questo pensiero?

Ultimo step, rigira o capovolgi questo pensiero.


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STRUMENTI DI COUNSELING TRASFORMATIVO 1 :The Work di Byron Katie


Dunque è la premessa che le cose dovrebbero essere in un certo modo a formare il problema e a richiedere il cambiamento – e non il modo in cui le cose sono”  (P.Watzlawick)


Nei prossimi post mi piacerebbe introdurre brevemente 'The Work', il metodo delle quattro domande di Byron Katie perché lo ritengo uno strumento utile nei percorsi di counseling.
L'intervento di counseling si caratterizza per brevità (da uno a massimo massimo 12/15 incontri) e specificità (un problema contestualizzato, sia esso un rapporto di coppia, che con i figli, col lavoro ecc.). Per cui un metodo che si focalizza su di un pensiero disfunzionale, il primo che la mente riesce a cogliere e 'inchiodare' su carta, mi sembra veramente adeguato al setting del counselor.


Premetto che, come per la maggior parte delle procedure di ordine psicologico, non è uno strumento da usare indiscriminatamente e ‘a tappeto’. Byron Katie stessa, portavoce di questo metodo, precisa che “The Work isn’t for everyone” – The Work non è per tutti – a causa del suo carattere di estrema concentrazione, radicalità e  ‘spietata’ incisività. Ciò presuppone, da parte del cliente, una grande apertura mentale e un estremo desiderio di verità e di liberazione personale;  dal lato del professionista poi, occorre una precisa intuizione della strategia e del timing per la ‘somministrazione’. 


Di per sé la tecnica può apparire banale - quattro domande e un ‘turnaround’(che  in italiano è stato reso con ‘rigiro’)- che tuttavia, se calibrati e indirizzati in modo appropriato,  assorbono la forza stessa del problema e gliela ritorcono contro, portando alla luce aspetti utili alla comprensione e all’eventuale risoluzione di esso.

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venerdì 9 maggio 2014

LA CURA 3 - Effetto Frana

“Insegnami a rimaner centrato e sereno pur nel fragore dei mondi che crollano” (Paramahansa Yogananda)


Ecco dunque qual’è stato e qual’è tuttora il mio bisogno o meglio il mio desiderio principale: apprendere una strategia per stare bene qui, nell’imperfetto, nel deperibile, nell’incontrollabile e nel ‘franabile’ - riferendomi concretamente ai grossi disagi che sempre più spesso purtroppo colpiscono il nostro quotidiano.
Il focus si sposta quindi dall’oggetto esteriore (la viabilità, il marciapiede, il museo, il calendario di eventi) all’oggetto interiore : le nostre percezioni, emozioni e credenze, in una parola, le nostre reazioni rispetto ai suddetti oggetti esteriori.

Ci saranno sempre dei problemi e delle conflittualità nelle situazioni contingenti della vita perché essa è costante movimento  laddove noi  fatichiamo da matti ad adeguarci al cambiamento. Tuttavia, nel mio ricercare, ho trovato e sperimentato anche una dimensione aldilà dei conflitti, uno spazio ampio in cui essi perdono la loro virulenza e si ‘risolvono’ in una comprensione superiore. Quello è il ‘paese’, la ‘terra’ su cui poggiare i piedi stabilmente. Non ha nemmeno bisogno di manutenzione... ma solo dell’Eros che ci porta lì.

Diceva qualcuno “Cercate prima il regno dei Cieli e la sua giustizia, e tutte le altre cose vi saranno date in aggiunta”. Benedetti dunque anche coloro che riescono a trovare la pace in mezzo ai mondi che franano.

## vedi i due post precedenti


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LA CURA 2 - Il paese perfetto

“E’ possibile che nonostante le scoperte e i progressi, nonostante la civiltà, la religione e la sapienza universale, si sia rimasti alla superficie della vita? […] Sì, è possibile” (Rilke)


Se d’altro canto, però, “non di solo pane vive l’uomo”, potrebbero avere un loro valore anche quelli come me, che invece si curano della dimensione esistenziale del vivere. Sembra una parolona da topi di biblioteca quando in realtà  può rivelarsi una faccenda molto pratica. 
Per esempio: quanto incide sul mio umore la visione di un marciapiede dissestato nel mio paese? Quanto mi appesta la giornata una disorganizzazione nei trasporti pubblici? Non intendo a livello pratico, perché i disagi sono i disagi per tutti, intendo a livello mentale: quanto a lungo e quanto in profondità questa roba scuote il mio clima emotivo.


Le persone tipo me, per l’appunto, tendono proprio a occuparsi del rapporto che abbiamo con i nostri bisogni e con le loro talvolta inevitabili frustrazioni...in altre parole, il lato emozionale del nostro stare al mondo. Sembra un aspetto secondario ma se ci si riflette un po’ si nota che è quello che fa la differenza.
Ad esempio mi chiedo: se un giorno vivessi nel paese perfetto, dalle scuole perfette e le fogne perfette, sarei davvero più felice? Avrei davvero colmato i miei vuoti? Sarei infine capace di percepirne la ‘perfezione’, visto che ognuno ha un suo particolare punto di vista su questo concetto? O ci sarà sempre qualcosa da criticare, aggiustare, risanare, modificare, poiché questa è la natura della dimensione umana e terrena - l’imperfezione?   Attenzione: non sto dicendo che non bisogna impegnarsi per migliorare lo status quo (vedi post precedente), piuttosto di come convivere armoniosamente con tale impegno, senza imporre il proprio punto di vista agli altri, senza recriminazioni o lamentele fini a se stesse.

## vedi il post precedente e quello seguente


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LA CURA 1 - Il bilancio consuntivo


“I care” (Don Milani)


Quando termina un ciclo vitale, sia esso un lavoro, una relazione o un percorso formativo, ho la tendenza a farmi delle domande e a mettere insieme un bilancio consuntivo dell’esperienza appena trascorsa. Ciò mi accade in maniera abbastanza naturale, è come la fase di digestione e assimilazione dopo aver consumato un pasto.


Un paio di giorni fa, parlando con un amico per le strade del nostro paese, riflettevo su come non sia sempre facile sintonizzarsi e accogliere i bisogni altrui, specialmente se non coincidono con i propri. Porto un esempio schietto schietto: se tutte le persone fossero come me, non ci sarebbe nessuno ad occuparsi dello stato delle strade, delle fogne, di un muro pericolante o delle erbacce che crescono.  Una come me non si accorge di un marciapiede dissestato finché non ci batte il muso o finché, fatto un figlio, non trova difficoltà a spingere il passeggino.


Benedetti coloro che si prendono cura dell’aspetto materiale e pratico della vita, perché praticamente viviamo nella materia.
Benedetti coloro che si preoccupano di migliorare il nostro stare qui, nella forma di agio, funzionalità e perché no, di bellezza. 
Ho imparato tanto da queste persone. Talvolta, forse, l’insegnamento viene impartito sotto l’aspetto di critica o di un dito puntato: sempre meglio, mi dico, che battere una craniata in mezzo alla piazza a causa di una buca.

## continua nei due post successivi



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