venerdì 13 marzo 2020

IL “SANO” E IL “MALATO” 1: un ribaltamento di prospettiva


“Devo confessare che il diabete fu per me una grande dolcezza.”(Italo Svevo, ‘La Coscienza di Zeno’)


“La vita somiglia un poco alla malattia che procede per crisi e lisi e ha i giornalieri miglioramenti e peggioramenti. A differenza delle altre malattie, la vita è sempre mortale.” Con queste parole provocatorie, tratte dal suo libro ‘La coscienza di Zeno’, il nostro grande Italo Svevo ci invita a rivedere quel paradigma di ‘salute’ e ‘malattia’ che generalmente diamo per scontato. Secondo lui, in tempi di crisi e di mutamento, non sarà tanto il ‘sano’ a sopravvivere, quanto piuttosto ‘il malato’. Chiariamo innanzitutto cosa intendeva con tali termini questo scrittore, all’interno del suo panorama di idee.



Il ‘sano’, agli occhi di Svevo, era la persona perfettamente integrata nell’ingranaggio sociale del suo tempo che, all’epoca del romanzo in questione, poteva essere incarnato dalla figura del perfetto borghese produttivo e pragmatico. Traslato ai nostri giorni, il ‘sano’ è la persona che non si pone mai domande e si identifica pedissequamente con  gli atteggiamenti, le aspettative e soprattutto i ruoli della società attuale:  il manager ambizioso, la perfetta madre- diligente lavoratrice, il ribelle/la ribelle a priori, lo studente o studentessa modello, il radical-chic e via dicendo. Di per sé, nessuno di questi personaggi è totalmente negativo o deleterio: negativo è non lasciare in noi uno spazio di autenticità e di messa in dubbio di tali ruoli. Se da un lato identificarsi in un modello prestabilito reca una certa dose di sicurezza, dall’altro, quando cambiano i paradigmi e la società collassa, ci ritroviamo allo sbando in preda al panico e all’angoscia.



Al contrario, per Svevo, il ‘malato’ è colui che, vuoi per le circostanze, vuoi per una maggiore consapevolezza, non può o non vuole identificarsi con i modelli e le ideologie imposte dalla narrazione del potere  dominante, dai media o da secoli di stereotipi e cliché. In lui esiste uno spazio di messa in dubbio che, benché possa implicare una certa dose di sofferenza e isolamento, gli dà tuttavia la possibilità di pensare criticamente, crescere in autenticità e restare aperto al divenire.

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