mercoledì 14 ottobre 2020

“YOU MAY SAY I’M A DREAMER…ma non sono la sola”

-Io lo faccio per il tuo bene!

-Grazie, grazie… ma non ho bisogno di tutto questo affetto!

(Dal noto manuale “Come spacciare il proprio tornaconto per spiccato altruismo")

English version at the link:"YOU MAY SAY I'M A DREAMER...but I’m not the only one"


Dunque cosa fare, invece, per passare da un atteggiamento di reazione e chiusura a un’ottica di relazione e apertura alla vita? So che questa domanda suona quantomai patetica oggigiorno, in una società  dominata dalla logica della paura, della diffidenza, della distanza e delle ‘relazioni’ virtuali. Non importa, per fortuna ci sono ancora persone che si danno dei compiti evolutivi, che avvertono una responsabilità etica verso i propri simili e soprattutto verso i propri figli, che meritano un mondo migliore di quello attualmente disponibile. 


Tali persone sono spesso caratterizzate da uno stile di pensiero e di sentimento - e di linguaggio - non rigido o categorico. Non hanno fatto troppe ‘scelte di comodo’ nella vita, cioè non si sono adagiate in quel ‘quieto vivere’ che spesso è ignavia e genera sacche ribollenti di invidia, rabbia e frustrazione. Non sono leoni da tastiera nel mondo virtuale e poi pecore di gregge nella vita reale. Le persone a cui mi rivolgo sono il seme dell’umanità futura, ancora vibrante di creatività, coraggio e ardore. Si tratta di  un’umanità degna di questo nome e che, nonostante tutto, si pone ancora istanze di tipo:

  • psicologico: siamo disposti a prendere le distanze da modelli autoritari e dissentire? Vogliamo realmente la libertà e la possibilità di scelta per noi e per le persone che amiamo?
  • etico-politico: riusciamo ad osservare il nostro sistema culturale in maniera critica, invece che berci avidamente tutto quello che ci viene propinato dai media (di regime e di anti-regime)?
  • pedagogico: Siamo capaci di sensibilizzare le nuove generazioni, di elevarle a ciò che di più nobile è stato prodotto dall’umanità, ai valori della benevolenza e della fratellanza, e non soggiogarle alla logica della paura e della sopraffazione? 

Ai posteri (ammesso che ci saranno, visto l’andazzo) l’ardua sentenza. 



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"YOU MAY SAY I'M A DREAMER...but I’m not the only one"

A:-I do it for your own good!  B: -Thank you…but really I don't need all this love! (From the well known manual "How to smuggle one's own benefit for loving selflessness")

Versione italiana al link:“YOU MAY SAY I’M A DREAMER…ma non sono la sola”



So what to do to move from an attitude of reaction and closure to a perspective of relationship and openness to life? I know that this question sounds very pathetic nowadays, in a society dominated by the logic of fear, distrust, distance and virtual 'relationships'. It doesn't matter, fortunately there are still people who give themselves evolutionary tasks, who feel an ethical responsibility towards their peers and especially towards their children, who deserve a better world than the one currently available. 



Such people are often characterized by a style of thought and feeling that is not rigid or categorical. They have not made too many 'comfortable choices' in life, that is, that 'quiet living' which is often sloth and generates boiling pockets of envy, anger and frustration. They are not keyboard lions in the virtual world and then sheep of flock in real life. The people I’m referring to are the seed of future humanity, still vibrant with creativity, courage and ardor. It is a humanity worthy of the name and that is, in spite of everything, still capable to reflect on:

  • psychological issues: are we willing to distance ourselves from authoritarian models and disagree? Do we really want freedom and freedom of choice for us and for the people we love?
  • ethical-political issues: are we able to observe our cultural system in a critical way, instead of drinking greedily all that is offered to us by the media?
  • pedagogical issues: are we able to raise awareness among the new generations, to elevate them to the noblest human ideals, to the values of benevolence and brotherhood, and not subjugate them to the logic of fear and oppression? 

To the posterity (assuming that there will be one, given the hustle and bustle) the tough sentence.




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IL GUSTO PER LE ETICHETTE

 Osservate le vostre reazioni a ogni episodio della giornata, osservate le vostre convinzioni. Interrogatevi! Siete disposti a mettere in discussione le vostre convinzioni? Se la risposta è negativa, allora siete pieni di preconcetti e reagite meccanicamente.”(Anthony de Mello)

English version at the link: The need for labels


Ma perché, dopo tutto quello che la storia dovrebbe averci insegnato, siamo sempre così affezionati alle ‘etichette’, cioè in fin dei conti, ai ‘pregiudizi? Gli studiosi hanno risposto a questa domanda evidenziando una serie di meccanismi psicologici ben conosciuti e sfruttati da chi, nelle varie epoche, ha detenuto il potere. Il pregiudizio (o l’etichetta) è:

  • comodo e veloce: usandolo, risparmiamo quel tot di energia psichica necessaria per approfondire e pensare criticamente una questione;
  • rassicurante: ci dà l’impressione di sapere, ci tiene nel noto e nel conosciuto, ci porta il ‘plauso’ del gruppo di appartenenza, se non addirittura del gruppo dominante; 
  • de-responsabilizzante: convinti che ‘i cattivi siano loro’, proiettiamo tutto il male, anche quello che umanamente ci apparterrebbe, su un’altra categoria di individui. Costoro diventano magicamente il capro espiatorio di tutto il marcio del pianeta: guerre, inquinamento, pandemie, zanzare, suocere e quant’altro. Noi ne usciamo apparentemente ‘puliti’, perché tanto ‘è colpa loro’.

Sebbene etichette, nomi e generalizzazioni siano spesso necessari e utili per capirsi, da quanto riportato sopra possiamo facilmente evincere che chi ne abusa dimostra pigrizia mentale, scarsa intelligenza, insicurezza, immaturità e sfiducia in se stesso. Purtroppo l’equilibrio interiore o la maturità psicologica non sono doni che arrivano improvvisamente, per grazia divina, allo scoccare dei 35 o 40 anni, specialmente in un panorama culturale e morale devastato come il nostro.   Non mi risulta nemmeno che siamo sempre stati capaci di mettere, ai più alti livelli politici o dirigenziali, il fior fiore dell’umanità …per cui, in alcuni casi, l’uso e l’abuso di certi stereotipi ed etichette viene intenzionalmente usato per precisi scopi di “divide et impera”.



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THE NEED FOR LABELS

 “Observe your reactions to each episode of the day, observe your beliefs. Question yourselves! Are you willing to question your beliefs? If the answer is negative, then you are full of preconceptions and react mechanically." (Anthony de Mello)

Versione italiana al link : Il gusto per le etichette

But why, after all that history should have taught us, are we always so attached to 'labels', that is to say, to 'prejudices'? Scholars have answered this question by pointing out a series of psychological mechanisms well known to and exploited by those who, in various eras, held power. Prejudice (or etiquette) is:

  • convenient and fast: using it, we save that amount of psychic energy necessary to deepen and think critically about an issue;
  • reassuring: it gives us the impression of knowing, it keeps us on the safe ground of the known, it brings us the 'praise' of the group we belong to, if not even of the dominant group; 
  • de-responsibilizing: convinced that 'the bad guys are theirs', we project all the evil, even that which humanly would belong to us, onto another category of individuals. They magically become the scapegoat for all the rottenness of the planet: wars, pollution, pandemics, mosquitoes, mothers-in-law and whatever else. We come out apparently 'clean', because ‘it's all their fault'.

Although labels, names and generalizations are often necessary and useful to understand each other, from the above we can easily deduce that those who abuse them show mental laziness, poor intelligence, insecurity, immaturity and no self-confidence. Unfortunately, inner balance or psychological maturity is not something that comes suddenly, by divine grace, at the age of 35 or 40, especially in a devastated cultural and moral landscape like ours.   Nor have we always been able to put, at the highest political or managerial levels, the cream of humanity ... so, in some cases, the use and abuse of certain stereotypes and labels is intentionally used for specific purposes of "divide et impera".



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CHI È IL NEMICO?

 “Non fatevi ingannare da quelli che sono dalla vostra parte. Al momento di marciare, molti non sanno che in testa marcia il nemico.”(Bertold Brecht)

English version at the link: Who is the enemy?


Una possibile definizione di nemico è “colui che minaccia la mia integrità fisica, la mia reputazione, l’immagine che ho di me; colui che minaccia l’identità personale e collettiva.”

Storicamente, ma anche individualmente, il percorso per la creazione del ‘nemico’ passa da un processo di disumanizzazione dell’altro socialmente legittimato. Esiste una sorta di inibizione morale ad attaccare un proprio simile; eppure, se riusciamo a rendere il simile diverso, allora questa inibizione cade. L’altro non è più un essere umano come me: è ridotto a un nome generico e sostanzialmente dispregiativo che ne annienta i sentimenti, la storia personale, gli affetti. Si tratta della tipica manovra dei poteri autoritari che hanno disumanizzato (e ucciso) milioni di persone, riducendole prima a un nome collettivo e poi a una serie di numeri senza volto.



Primo Levi, che si chiedeva ‘di che cosa fossero fatte le SS’, osservava come costoro non fossero sostanzialmente dei mostri: anzi, erano persone mediamente colte, mediamente intelligenti, mediamente buone o cattive che, per orgoglio e pigrizia mentale, si lasciarono sedurre dalla manovra disumanizzante nazista .

In tutte le operazioni di creazione del nemico, i poteri dominanti utilizzano il forte impatto dei mass media. Sappiamo che la mente umana funziona per immagini e spesso fatica a distinguere tra un’immagine e la realtà. L’ansia, per esempio, si gioca in gran parte sull’anticipazione di scenari (cioè immaginari) futuri, non ancora non presenti e reali. I mass media detengono il potere dei suoni e delle immagini, di conseguenza hanno tutti gli strumenti giusti per influenzare le nostre menti. 



I media che divulgano la narrazione dominante, il ‘mainstream’, creano così una realtà percepita dai più come ‘vera’  e che spesso fa leva su emozioni potenti, ataviche come la paura o la rabbia. Visto che siamo strutturalmente bisognosi di certezze, tendiamo a rimuovere il fatto che la verità non è mai posseduta per intero da nessuno e dunque anche il famoso mito della ‘maggioranza’ non implica necessariamente che se siamo in di più abbiamo più ragione. 

La realtà come comunemente la intendiamo è una convenzione, cioè il risultato del punto di vista dominante che converge su una versione di verità, giustizia o legalità relativa al livello di consapevolezza di una civiltà. Non molti secoli fa, per esempio, la schiavitù era considerata giusta e legale e la stessa scienza supportava e giustificava tali posizioni ideologiche. Le ‘leggi razziali’ erano chiamate appunto ‘leggi’, non ‘il parto sconclusionato di una mente malata’. Oggi, al solo pensiero inorridiamo e li definiamo ‘crimini contro l’umanità’.



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WHO IS THE ENEMY?

 "Do not be fooled by those who are on your side. At the time of marching, many do not know that the enemy is marching at the head."(Bertold Brecht)

Versione italiana al link:Chi è il nemico?


A possible definition of enemy is “he/she who threatens my physical integrity, my reputation, the image I have of myself; he/she who threatens personal and collective identity".

Historically, but also individually, the path to the creation of the 'enemy' passes through the socially legitimized dehumanization of the other. There is a kind of moral inhibition to attack one's fellow human being; yet, if we succeed in making the fellow human being different, then this inhibition falls. The other is no longer a human being like me: he is reduced to a generic and substantially derogatory name that annihilates his feelings, his personal history, his affections. This is the typical maneuver of authoritarian powers that have dehumanized (and killed) millions of people, reducing them first to a collective name and then to a series of faceless numbers.



Primo Levi, who wondered 'what the SS were made of', observed how they were not essentially monsters: on the contrary, they were average educated, average intelligent, average good or bad people who, out of pride and mental laziness, let themselves be seduced by the dehumanizing Nazi maneuver.

In all enemy-creation operations, the dominant powers use the strong impact of the mass media. We know that the human mind works by images and often struggles to distinguish between an image and reality. Anxiety, for example, is played largely on the anticipation of future (i.e. imaginary) scenarios, not yet present and real. The mass media hold the power of sounds and images, therefore they have all the right tools to influence our minds. 


The media that disseminate the dominant narrative, the 'mainstream', thus create a reality perceived by most as 'real' and that often appeals to powerful, atavistic emotions such as 'fear' or anger. Since we are structurally in need of certainties, we tend to remove the fact that the truth is never fully owned by anyone and therefore even the famous myth of the 'majority' does not necessarily imply that if we are more we are ‘right’. 

Reality as we commonly understand it is a convention, i.e. the result of the dominant viewpoint converging on a version of truth, justice or legality related to the level of awareness of a civilization. Not many centuries ago, for example, slavery was considered just and legal and science itself supported and justified such ideological positions. Racial laws' were called 'laws', not 'the rambling birth of a sick mind'. Today, just thinking about them horrifies us and we call them 'crimes against humanity’.



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DALLA REAZIONE ALLA RELAZIONE

 “La guerra non è che l’espressione spettacolare della nostra vita quotidiana.”(Krishnamurti)

English version at the link:From reaction to relation(ship)

Cosa c’entra la reazione con la relazione, a parte la presenza o meno di una ‘l’? Con ‘reazione’ mi riferisco a tutto quel set di risposte emotive automatiche, di tipo difensivo o offensivo, che emergono in noi nelle situazioni percepite come ‘pericolose’. Alla base di queste reazioni possono esserci credenze e convinzioni assai radicate, difficili da portare alla luce e da mettere in discussione. 

Tendenzialmente è più facile che esplodano in reazioni automatiche e aggressive gli individui carichi di una forte tensione interiore, a sua volta dovuta agli irrisolti e alle contraddizioni presenti nelle loro esistenze. Tutto questo genera sacche di infelicità e frustrazione così bollenti che, ogni tanto, proprio come una pentola a pressione, costringono queste persone a ‘sfiatare’ attaccando ‘il nemico’ di turno. Cosa poi sia questo ‘nemico’, spesso egregiamente costruito da media corrotti e venduti al potere, lo dirò nel prossimo post: Chi è il nemico?



Le persone ‘automatiche’ si sentono giustificate nei propri scoppi di violenza verbale, mediatica e talvolta fisica  perché ‘protetti’ dal calore del loro gruppo di appartenenza, generalmente allineato con l’ideologia dominante e quindi molto numeroso. Si osserva spesso come i più ribelli in gioventù, non essendo stati in grado di attuare con coerenza e coraggio i propri ideali ‘rock’n’roll’, tendano a diventare i più reazionari e conservatori in età ‘matura’. Di tutto il loro rock’n’roll, al massimo resta una generosa propensione all’alcol e ad altre forme di dipendenza o, se si ha particolarmente grinta e fortuna, una chitarra elettrica scordata.



Le reazioni automatiche, aggressive o difensive, hanno avuto la loro  sana funzione nell’evoluzione umana e bisogna riconoscere che talvolta sono ancora molto utili. Tuttavia, oggigiorno, potrebbero e dovrebbero essere un po’ più mediate dall’applicazione dell’intelligenza critica - facoltà umana tutt’ora in gran parte sconosciuta, con buona pace di Voltaire, Beccaria, Diderot e dei loro compagni illuministi.

Il rischio delle reazioni automatiche è quello di farci perdere le relazioni autentiche, quelle cioè in cui ci disponiamo a un reale ascolto dell’altro, dei suoi vissuti e delle sue argomentazioni. Ascoltare senza pre-giudicare rappresenta un pericolo immenso per le persone interiormente fragili e insicure: il nostro interlocutore potrebbe perfino avere delle valide ragioni capaci di mettere in crisi le nostre - Dio ce ne scampi e liberi! Così, grazie a una serie di etichette, oggi più in voga che mai, sappiamo già in partenza chi è l’altro e non ci diamo la pena di incontrarlo: si tratta semplicemente del cattivone o del cretino di turno da cancellare, isolare o addirittura ‘eliminare’ fisicamente. L’altro diventa dunque il potenziale ‘nemico’.



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FROM REACTION TO RELATION(SHIP)

 

"War is but the spectacular expression of our daily life." (Krishnamurti)

Versione italiana al link: Dalla reazione alla relazione



What does reaction have to do with relation(ship), apart from the presence or absence of an 'l'? By 'reaction' I refer to all those set of automatic emotional responses, defensive or offensive, that emerge in us in situations perceived as 'dangerous'. At the basis of these reactions there can be very deep-rooted beliefs and convictions, difficult to bring to light and to question. 

It is more likely that individuals charged with a strong inner tension, due to the unresolved issue and contradictions present in their lives, explode into automatic and aggressive reactions. All this generates pockets of unhappiness and frustration so hot that, every now and then, just like a pressure cooker, they force these people to ‘vent out' by attacking 'the enemy' on duty. What then is this 'enemy', often so well constructed by corrupt and sold to power media, I will speak about it in the next post: Who is the enemy?



The 'automatic' people feel justified in their outbursts of verbal, mediatic and sometimes physical violence because they are 'protected' by the warmth of their group, generally aligned with the dominant ideology and therefore very numerous. It is often observed that the most rebellious in their youth, not having been able to consistently and courageously fulfill their 'rock'n'roll' ideals, tend to become the most reactionary and conservative at a 'mature' age. Of all their rock'n'roll, at most there remains a generous propensity for alcohol and other forms of addiction or, if you are particularly gritty and lucky, an out-of-tune electric guitar.



Automatic reactions, aggressive or defensive, have had their healthy function in human evolution and we must recognize that sometimes they are still very useful. However, nowadays they could and should be a little more mediated by the application of critical intelligence - a human faculty still largely unknown, with all due respect to Voltaire, Beccaria, Diderot and their Enlightenment companions.

The risk of automatic reactions is getting us to lose authentic relationships, those in which we there is a real listening to the other, his experiences and his arguments. Listening without pre-judging represents an immense danger for people who are inwardly fragile and insecure: our interlocutor may even have valid reasons capable of putting our own - God forbid - in crisis. So, thanks to a series of labels, today more in vogue than ever, we already know who the other is and we do not bother to meet him: he is simply the bad guy or the idiot on duty to be erased, isolated or even physically 'eliminate'. The other becomes the potential ‘enemy'.



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